La sofferenza ti spinge a lasciare te stesso. Esci dal guscio piccolo e limitato. E non puoi soffrire se prima non hai amato…la sofferenza è l’esito finale dell’amore, poiché è amore perduto. È il ciclo dell’amore che giunge a compimento: amare, perdere, provare dolore, lasciare e amare di nuovo. Il dolore è la consapevolezza che ti ritroverai solo, e non c’è nient’altro oltre a quello perché essere solo è il destino ultimo di ogni singola creatura vivente.

Il dolore ti riunisce con ciò che hai perso. È una fusione. Vai con la cosa o la persona che hai amato. In qualche modo ti scindi da te stesso e l’accompagni, condividi il cammino che ha intrapreso. La segui fin dove puoi.

 

Questo è un pezzo di ciò che mi ha fatto riflettere. La scorrevolezza della scrittura di Philip Dick e il suo modo di raccontare un futuro futuribile han fatto poi il resto. Ma in questo libro si parla di tecnologie e cuore, di identità che può venir cancellata in un secondo e ti svegli in una camera d’albergo pidocchiosa che nessuno si ricorda di te. C’è anche dell’amore dentro, contorto e convulso, vissuto in modi diversi e spesso viscerali, sullo sfondo di città dominate dallo stato di terrore imposto da pol (la polizia, circa) e accettato per il quieto vivere dalla gente.