Un’amica va in Malesia. Dopo varie missive nelle quali chiedo insistentemente di sapere com’è la vita lì, che faccia abbia la gente, le solite curiosità da occidentale sulle tradizioni di una società così distante da noi insomma, che non si riescono davvero a spiegare a parole, la mia amica mi suggerisce un titolo, semplicemente: “Born into brothels“. Mi dice di guardarlo, che lì vedi davvero la realtà in cui lei si trova immersa mentre segue il progetto che l’ha fatta arrivare fin lì.

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L’ho visto, e ho capito. Ho capito come si sente quando intervista migliaia di persone, rifugiati, prostitute, famiglie che a stento riescono a ricrearsi una vita decente quando anche il decente per noi sarebbe già insopportabile. E nel documentario c’è tanta di questa realtà sommersa, raccontata attraverso gli occhi dei bambini che vivono nei bordelli dove le madri lavorano, sognando una vita migliore che a volte arriva e altre volte, quasi sempre, non ci sarà mai. Un documentario realizzato in maniera splendida, senza buonismi di sorta, che testimonia un’esperienza ma non è pesante e non vuole smuovere le coscienze sfacciatamente, quanto piuttosto come potrebbe fare l’occhio di un fotografo quale Zana Briski.