Incuriosita da una recensione letta tempo addietro e dal fatto che abbia vinto il Pulitzer per la letteratura lo scorso anno, mi son avvicinata a “Il tempo è un bastardo” di Egan. All’inizio ho trovato piacevole il continuo cambio di punto di vista e stile, poiché il romanzo è strutturato come un susseguirsi di periodi temporali diversi raccontati di volta in volta da un personaggio del gruppo che ruota attorno alla figura del produttore musicale Bennie Salazar e della sua assistente Sasha. L’arco temporale attraversa gli anni Settanta fatti di musica underground dei concerti punk rock per arrivare fino alla New York di un futuro possibile e non molto lontano dove le persone preferiscono parlarsi attraverso messaggi via micro computer. A metà del libro però ho cominciato ad annoiarmi, non più presa dall’iniziale freschezza e forse dal forzato allungarsi della storia che devia su altri personaggi minori. Anche se probabilmente questo possa risultar essere un pregio narrativo, quello di spostare l’asse continuamente e obbligare il lettore a riprendere le pagine lette per ripescare i nomi e i luoghi già raccontati in precedenza. Mi sono ripresa soltanto un momento prima della fine dove con diagrammi e slide una bambina – la figlia di Sasha – racconta in modo piacevolmente distorto della sua famiglia e del rapporto con il fratello autistico. Ma nel complesso mi è mancato qualcosa, mi ha lasciato perplessa il finale e se nel mezzo conto pure che mi sono un po’ annoiata, se non lo avete letto non direi che vi siete persi granché.

jenniferegan_tempobastardo