Lo ammetto, spesso quando mi appassiono a un libro, poi cerco di capire se lo scrittore o la scrittrice che mi ha “vinto” ha prodotto altri titoli degni di quello appena letto e parto in quarta alla ricerca frenetica di informazioni a destra e a manca, per finire poi con il leggermi di fila tutti i libri che sono usciti dalla sua penna (o, ormai, dal suo computer). Ma non accade sempre, soltanto quando c’è quel quid che mi rimane in testa, non proprio il pensiero di averlo voluto scrivere io quel libro, anche soltanto un solchetto nelle pieghe della memoria dove si son posate le sue parole. Credo sia la stessa logica che ci spinge a leggere tutto quello che il nostro autore – non starò a declinare ogni volta al maschile o femminile – preferito sforna: se l’ha scritto lui è degno di fiducia. Ciò comporta pure ripensamenti e tristi idilli interrotti. Tutto questo prologo per dire che devo ammettere che Fabio Genovesi scrive bene. Non che con un libro solo non lo avessi capito, ma mi ha dato la conferma ecco. E nel suo modo così preciso di narrare gli eventi, di farti entrare nel personaggio, di delinearlo con limpidità e farti appassionare tanto da non riuscire a mollare il libro anche quando gli occhi ti si chiudono per il sonno, proprio in questo trovo il piacere di leggerlo e consigliarvelo.

La storia racconta di un giovane metallaro che incontra l’amore e di un bambino che sembra stupido e sa andare in bicicletta come nessun altro. Dentro tra tante cose ci sono anche la pesca (Genovesi fa pesca sportiva quindi dell’argomento ne sa molto), il ciclismo, la musica metal e i non luoghi della campagna toscana, mescolati ad altre cose perse (madri, amori, infanzie). E ci sono i personaggi che si raccontano, che stanno come esche vive all’amo in attesa che qualcosa succeda, di un cambiamento, che qualche volta arriva e trascina via tutto insieme alla corrente.

eschevive